mercoledì 23 febbraio 2011

Il canale di Dristor

(riporto le note di campo scritte il 16 febbraio 2011 al Canale di Dristor)
Decido di andare da solo al canale di Dristor. Alle 15.30 circa sono di fronte all'apertura del tombino, e mi metto a gridare “Iulian, Iulian, sunt Lorenzo!”. Iulian è il compagno della madre dei fratelli Dristor. Sono in nove in quella famiglia: la madre, di circa 35 anni, Iulian, il compagno, e tre figli (Alex, 20-25 anni; Fratello 2, 15-17 anni; Richi, 10-12 anni) e quattro figlie (Sorella 1, la più vecchia; Floara, 17 anni; Cristina, 16 anni; Karina, 14 anni). In più con loro c'è la piccola Alexandra (Pepita, 2 anni) che è la figlia di Alex. Alla famiglia si devono aggiungere altre dieci persone circa, che dormono con loro.
Iulian è il più vecchio del gruppo, la persona con cui avevo parlato la settimana scorsa. Iulian sale all’aria aperta, mi dà la mano e poi mi dice di scendere nel canale. Allora scendo. L’entrata è difficile, molto stretta, e soprattutto il primo passo è il più difficile perché è il più alto. L’asfalto del terreno mi arriva al naso, non avevo mai visto la strada dal punto di vista di una formica. E’ molto grande, penso prima di vedere solamente un cerchio di cielo. Mi calo giù per la scala facendo attenzione. Il canale si apre, in uno spazio scuro, un cunicolo ad arcata, con due enormi tubi al centro. Subito sento la puzza, ma non è tanta e soprattutto è vivibile. Non fa troppo caldo, rimango con la giacca, benché senta che si sta bene. Le persone che ci abitano dentro sono tutte senza giubbotto. Iulian è in maniche e pantaloncini corti. Mi meraviglio della grandezza del canale, ma soprattutto del fatto che i ragazzi dormono anche sopra i tubi. Il canale assolve tutte le loro funzioni, dal bagno, alla discarica, al posto per dormire e per stare al caldo, al posto per mangiare. Arrivo giù e Iulian si posiziona sopra uno dei due grandi tubi (2 metri di diametro), seduto su una piccola piattaforma di cemento sopraelevata. Si mette seduto e continua il suo lavoro: sta tagliando qualcosa. Poi intravedo, nella parziale oscurità (è molto buio ma intravedo le facce delle persone grazie a tre candele appoggiate al muro), anche Mamma Dristor, una signora di circa 35 anni, che mette a posto i letti, le coperte sopra le reti appoggiate alle pareti del canale. Sopra uno di questi letti c’è George, che avevo già visto in Villa, e che avevo conosciuto il primo giorno in cui ero uscito con i ragazzi del gruppo Bucur. George mi racconta che è scappato dall’ospedale. Dopo due settimane non ce la faceva più dalla noia e ha deciso di scappare dall’ospedale, fregando così medico e custode. E’ tornato in canale, dove fa più caldo, ed è così meglio per lui, ed inoltre lì c’è anche Floara, con cui ha avuto un bambino (Iulian Florin) che ora sta in una famiglia. Mi dice che vorrebbe andarlo a trovare con Floara, sabato. Ma George sta male, lo vedo che fatica a respirare e che si ferma spesso per fare delle pause. Parliamo per un bel po’, prima che Iulian intervenisse dicendomi di stare rilassato (aveva visto che stavo seduto con la schiena in posizione eretta, ma in realtà io ero abbastanza rilassato), e chiedendo a George di chiedermi se potevo comprare per loro qualcosa da mangiare tutti assieme. Per me si può fare, anche perché penso che sono in una casa altrui, quindi chiedo a George di accompagnarmi al supermercato lì vicino.
Torniamo con delle salsicce, del pane e un succo di frutta. Metto le salsicce dove mi dice Iulian, al fresco sotto l’apertura del canale, e poi do il pane e il succo a lui, che le mette da parte, dietro il grande tubo. Mi siedo sulle coperte accanto a George, e continuiamo parlando di Parada. Lui mi dice di non dire niente riguardo al fatto che è scappato dall’ospedale, che tanto lo verranno a sapere dai medici. Io gli dico che non dirò niente. Mentre io e George parliamo Alex dorme, Iulian continua a lavorare sul suo “trono”, e la mamma si siede vicino a noi. Non fa nulla di particolare, ma è solamente attenta ad ascoltarci, certe volte fa delle domande a George su di me. Per esempio sul perché sono a Bucarest, che cosa sto studiando. Mi chiede se i miei genitori riescono a mantenermi. Mi chiede anche da che posto in Italia vengo e quando riparto per l’Italia. Intanto Iulian sta continuando a lavorare, tagliando qualcosa, che non riesco a vedere, e pestando con vari arnesi, ma è troppo in alto, benché sia di fronte a me. I discorsi fra me, George, e la madre si compongo di brevi domande e tanti momenti di silenzio, in cui George si piega in avanti, esausto, e la madre accende qualche candela da mettere sul muro o parla con Iulian.
Siamo quindi in sette: Iulian, la madre, George, io, Alex (che dorme sul tubo), lo zingaro (che se ne sta in disparte), e l’altro dei fratelli. Entra d’improvviso Alin George, che quando mi vede sorride e mi dà la mano. Alin si siede direttamente accanto a me, senza parlare con gli altri, e senza che gli altri gli parlino. Mi racconta che è stato nel bloc questa notte, e che è stato da solo. Io non so se credergli, perché mi aveva più volte negato che dormiva nel canale. Mi dice che non gli piace qui, che non vuole dormirci, e che se ne andrà presto (dopo un’ora se ne sarebbe andato). La situazione diventa abbastanza monotona, sembrava che si fossero appena svegliati e che avessero iniziato ora la giornata. Passano i minuti e arrivano le prime persone da fuori. Sono in tutto cinque, arrivate nel giro di mezz’ora non tutte insieme. Non so chi siano, e, a parte uno che avevo visto due/tre volte a Parada, non le ho mai viste. Hanno due particolarità: sono tutti sulla trentina, maschi, e sono in generale abbastanza puliti, con vestiti e scarpe abbastanza decenti. Di solito il colore di fondo dei ragazzi di strada è il grigio, grigio verde, di chi vive nella polvere. Appena entrano, mettono sul tavolo di Iulian qualcosa, non riesco a vedere che cosa. Ma nel giro di un’ora avrebbero tirato fuori soldi per circa quattro volte. Ognuna di queste persone, appena entrata, guarda George e, con faccia stupita ma con tono severo, gli chiedono perché fosse scappato. Poi guardano me. Indifferenza totale a parte il ragazzo con la pila, quello che già avevo visto. Mi punta la pila in faccia e, girandosi verso Iulian, gli dice in traduzione: “E questo che cazzo ci fa qui?”. Iulian gli spiega che sono uno studente e che voglio passare del tempo con loro, ma glielo spiega in maniera molto sbrigativa, e con un sorriso sulle labbra che non mi mette molto in tranquillità. E mi viene quindi da pensare al perché mi abbiano accettato lì dentro: il pane, il cibo. Allora capisco e mi tranquillizzo. E’ importante che ci sia una ragione per la quale io stia lì, perché questo vuol dire che se non vado loro hanno meno cibo, quindi stanno peggio. In realtà il giro di soldi ce l’hanno, ma spero che l’equilibrio regga, e che Iulian non debba mettere in discussione la mia permanenza con loro. Infatti il ragazzo che mi ha puntato una pila dopo non ha più detto niente. Anzi, poco dopo, io gli chiedo informazioni sugli autobus che passano da Dristor, e lui mi risponde senza indugi.
Dopo circa mezz’ora arrivano i ragazzi da Parada (sono quindi circa le 17). Richi, Karina e Pepita scendono in canale. Richi appena mi vede si ferma immobile a guardarmi. Poi va avanti senza spiaccicarmi parola chiedendo alla madre con chi fossi venuto. Alla risposta che ero venuto da solo mi guarda ancora, poi, dopo un po’, mi chiede soldi. La madre gli risponde che avevo già portato il cibo. Allora lui si avvicina a me, mi dà la mano e si gira verso gli altri. Diversamente si comporta Karina, che comunque è quella incaricata di badare a Pepita. Karina mi guarda e non mi parlerà più per una buona mezz’ora, quando solamente la situazione diventerà  divertente è tutti rideremo delle parolacce che usciranno dalla bocca della piccola Pepita. La bambina è un terremoto. Karina, e Richi devono starle dietro per tutto il canale, mentre il suo vero padre dorme (un ragazzo di 25 anni). Pepita chiama “mamma” quella che è in verità sua nonna. La bambina è un terremoto, non sta ferma un attimo. Sua nonna la prende ad un certo punto e comincia a pettinarla, ma la pettina così forte, così forte che la bambina comincia a piangere, senza fermarsi per un bel po’. Credo dovesse farle molto male. Il padre, Alex, non sta mai con la bambina. Una volta sola l’ho visto che le dava da mangiare. Mi faceva tenerezza vedere un ragazzo di 20 anni padre di una bimba di 2. La situazione non si modifica più di tanto, a parte qualche parolaccia in italiano di Richi, che sembra molto vispo quel pomeriggio. Quindi ad una certa ora decido di partire dal canale. L’uscita di scena è molto veloce. Ma l’uscita dal canale, oltre ad una sorta di liberazione, mi proietta in un mondo enorme, un mondo in cui però mi sento sicuro. Sicuro perché mi sento di conoscerlo. Mi sento vivo.

Uscita la testa dal tombino, un'improvviso soffio di vento fresco la avvolge.

mercoledì 16 febbraio 2011

Con il passo dei "balordi"

E' difficile seguire i ragazzi di Bucarest. E' difficile passare del tempo con loro, quando sono in strada (cioè sempre). E' difficile perchè hanno un'altra concezione del tempo.
Io sto cercando di fare un'osservazione partecipante sui ragazzi di strada. Vado a cercarli in strada e, se li trovo, mi fermo con loro per qualche ora, scrivendo, quando torno a casa, ciò che vedo e sento. E questo non è solo per la mia tesi, ma perchè potrò, in questo modo, portarmi Bucarest in Italia in un modo che è estremamente accurato, per non perdere nessun tipo di particolare.
Ma i ragazzi di strada non hanno la nostra concezione del tempo. E' difficilissimo seguirli, e non solo perchè si fanno chilometri e chilometri ogni giorno, ma anche perchè hanno orari diversi. Talvolta non ne hanno neppure.
Semplicemente si potrebbe dire che il loro "tempo" si regge sulla soddisfazione dei bisogni elementari: mangiare (principalmente) e la lotta contro il freddo. Il dormire non è un bisogno elementare perchè si può anche dormire di giorno no? I ragazzi che passano la maggiorparte della loro giornata in strada hanno perciò un piccolo cosmo proprio. Per i ragazzi che dormono nei canali, c'è invece una regolarità dovuta al fatto che quando in strada arriva il gelo notturno, sono costretti a tornare al caldo del tombino.
Quando vado a cercare i ragazzi devo aspettarmi sempre di tutto: posso trovarli inaspettatamente, oppure posso sprecare la mia giornata a cercarli senza concludere nulla. E' difficile, stancante, ma non demotivante. La fatica, che sento quando alle 9 di sera sto per crollare sul letto, mi ha fatto pensare a quest'altro programma di vita, che si scontra violentemente contro il nostro. E crea disagi.
Io non posso progettare la mia giornata, proprio perchè i ragazzi di strada non hanno progettualità. Vivono su ciò che è per loro quotidiano: i loro bisogni, le loro esigenze (ovviamente non solo dormire e mangiare). Mancanza di progettualità. Nei gruppi di ragazzi di strada c'è una forte mancanza di progettualità, che non significa non sapersi organizzare. Non significa mancanza di praticità. Significa rigettare ciò che è programmato, ciò che è stabilito dall'esterno.
L'appuntamento.
Sabato scorso uno dei ragazzi doveva incontrarsi con me alla fermata della metro per andare insieme al canale. Alle 15 a Tineretului. Dopo un'ora di attesa me ne sono andato. L'ho rivisto ieri, e mi ha risposto dicendomi che era lui che mi aveva aspettato per un'ora alla fermata della metro. In realtà credo che, conoscendo la sua storia, fosse rimasto preda di una delle ragazze del gruppo.
Il cambio di "programma".
Mi capita quotidianamente sentire cambi di idee, proposte rimangiate, programmi alternativi. E questo per due motivi. O perchè cercano di depistarmi o perchè effettivamente non hanno un programma. I ragazzini più piccoli hanno bisogno dei più grandi. Quando sto solo con loro, molto spesso cercano di mandarmi via con molti giri di parole e cambi di programma. Credo perchè si sentano insicuri, se soli con uno straniero e senza il resto del gruppo. Non perchè hanno paura di me. Questo è impossibile. Ma perchè hanno paura di ciò che il gurppo può pensare nel momento in cui loro sono i responsabili della mia entrata nel gruppo. Questa paura è estremamente comune ai bambini di strada.
La scuola e le istituzioni.
La scuola, e tutte le istituzioni con cui hanno contatti non potranno per loro rappresentare un aiuto per il futuro. E' molto difficile che si costruiscano un percorso. Scegliere la scuola, che dovrebbe durare un tot di anni, andare all'ospedale su appuntamento, incontrarsi con gli operatori sociali, sono azioni che implicano regolarità che loro non hanno. Per questo anche i loro propositi o sogni del futuro sono molto spesso soltanto sogni irrealizzabili. E loro stessi lo sanno. Lo sanno benissimo che quando dicono "voglio tornare dalla mamma", oppure "voglio andare in Italia a lavorare", oppure "credo che torverò un lavoro a breve", che saranno molto probabilemente parole senza seguito. C'è forte mancanza di progettualità quando si parla del loro futuro. Alina, dello staff di Parada, mi ha detto che è molto difficile costruire un percorso di assistenza sociale con loro. Gli interventi dell'associazioni sono spesso vanificati dalla scelta di rimanere in strada, e mandare all'aria ogni progetto per loro iniziato. La progettualità della loro vita non esiste. Non esiste in termini temporali, proprio perchè hanno un tempo parallelo, una realtà parallela, che molto spesso genera incompatibilità e contrasto con chi rappresenta un'istituzione. In primis il Centro diurno di Parada. Quante le storie di chi non può più entrare al Centro perchè ha deciso di usarlo solamente come uno strumento per mangiare e svagarsi, senza scegliere i progetti proposti. Tuttavia il Centro è importante. Scandisce il tempo ed una certa regolarità durante il giorno. Scandisce il tempo del pasto, degli allenamenti, della chiusura alle 5 del pomeriggio.
E' un piccolo orologio che tante volte si scontra con l'orologio della strada. Inesistente. Impossibile da descrivere.

E io, in mezzo a cercare di capire, torno a casa ogni sera distrutto.


sabato 5 febbraio 2011

Il primo giorno di scuola

Mi ricordo molto bene di quel 24 ottobre 2010, di quell'ora: le 21.30. Non solo perchè oggi ho riletto alcuni appunti. Quella sera uscii dal campus studentesco per andare in strada Bucur. Il mio primo giorno di scuola.
Florin mi aveva detto che si sarebbero trovati lì alle 22. Mi ricordo molto bene quella sera. In particolare la paura che avevo per quella prima volta. Ero solo ed era notte. Sapevo quanto la notte mi avrebbe fatto paura.
Volli uscire con i ragazzi del gruppo di strada Bucur. Florin mi aveva detto di venire, e questo già mi confortava perchè, in un certo senso, avevo una specie di autorizzazione ad entrare nella loro compagnia. Mi sono fidato di Florin, pensavo fosse una persona influente nel gruppo, a causa del suo caratteraccio. Ma avevo lo stesso tanta paura. Il cuore faceva rumore, e non i passi che mi portavano verso il luogo dell'incontro.
Voglio scrivere di questo primo giorno di esperienze in strada perchè penso che le mie paure siano molto importanti per comprendere il fenomeno. Credo che quella paura possa essere una testimonianza preziosissima per comprendere il blog intero, e le mie esperienze di ricerca. Risulterà più chiaro per me capire perchè ho cambiato/mantenuto alcune concezioni/pregiudizi/idee sui ragazzi di strada, e sulla subalternità in generale.

Il mio cuore batteva per la paura di essere aggredito. Pensavo di finire sotto un ponte, di addormentarmi con loro, e di venire derubato, oppure picchiato. Per questo non mi ero portato soldi. Solamente la carta d'identità, che sarebbe forse servita per un eventuale incontro con la polizia. Mi ricordo che mi ero messo vestiti già sporchi, una calzamaglia e due maglioni per il freddo. Pensavo di dover rimanere a dormire. Che non mi avrebbero lasciato andare.
Arrivai all'incrocio di strada Bucur, e i ragazzi erano già tutti lì. Imbarazzo pazzesco, la mia entrata in scena sarebbe diventata troppo plateale, non mi andava così. Alla luce verde attraversai la strada per dirigermi esclusivamente verso Florin. Neppure notai le facce degli altri. Appena Florin si accorse di me sorrise e mi presentò ai suoi compagni. Grazie a Dio! La paura cominciava ad essere piano piano sconfitta quando ognuno dei ragazzi/bambini mi dava la mano, e mi diceva il nome. Tuttavia mi sentii quasi sicuro soltanto quando il più vecchio di loro, mi diede la mano e cominciò a dirmi qualche parola in italiano.
Ci muovemmo quindi dalla strada ai bloc. Faceva già molto freddo, e il gruppo si spostò nell'atrio di uno dei grandi ed orribili bloc (i palazzi squadrati che compongono quasi la totalità di Bucarest). Parlavo sempre con il più vecchio, persi di vista Florin, che era stato l'artefice di questa mia prima uscita. Me ne accorsi e cercai di stare assieme a questi due personaggi, mi sarei sentito più sicuro.
C'erano altri 7 ragazzi, i più piccoli avevano 12 e 14 anni. Il resto aveva un'età che variava dai 16 ai 25 anni.
Non è facile introdursi in un gruppo. Difficile per chiunque, non solo per i timidi. ed io lì ero chiaramente diverso. Più alto, tra i più vecchi, straniero, senza la colla, giubbotto pulito. Possedevo una diversità che mi dava fastidio. Decisi così di restarmene zitto ed osservare. Mi misi per terra, nell'atrio del bloc, senza parlare. Le loro ombre si muovevano di fronte a me. Le loro immagini fluttuanti nel buio di un orribile pianerottolo, illuminato dalle luci soffuse della strada, mi sarebbero rimaste impresse per tutta la notte, che non passai con loro, ma nel mio letto a Grozavesti.
E mi ricordo che quell'immagine da retroscena mi motivò tantissimo. Le loro ombre, il rumore di chi accartoccia un sacchetto di plastica, quei sacchetti di colla, quell'odore così intenso di acidi da vernice, quei cani che si accasciavano su di loro come compagni di vita, quegli occhi da retroscena mi hanno, tutti insieme, mi hanno motivato tantissimo a rimanere lì. E mi hanno fatto comprendere tutti i pregiudizi che avevo espresso con le mie paure. Che in realtà costituivano la mia concezione del mondo subalterno, di quel mondo povero e nascosto ai nostri occhi, che in realtà non era proprio così.
Non ho visto violenza, ma aiuto reciproco tra di loro. Non ho visto così tanti egoismi, ma molto spesso condivisione di necessità (i turni davanti al calorifero, la condivisione della droga, la condivisione del silenzio). Non mi hanno chiesto soldi ( questo perchè i negozi erano chiusi a quell'ora?). Non ho dovuto difendermi in nessun modo. Non mi sono sentito escluso, né completamente ignorato. Non mi hanno scacciato. Era come se fossero abitutati alla presenza di esterni. Hanno, un pò tutti, cominciato a chiamarmi per nome. Si ricordavano il mio nome.

Questo cosa vuol dire?
Questo che significa?

Non lo so ancora, non sono conclusioni scientifiche, ma mi aiutano molto a capire che cosa osservo ora.

Le paure di quel primo giorno di scuola mi avrebbero fatto capire tante cose sui ragazzi di strada.
Tornai a casa, felice di tornarvi diversamente. Erano circa le 23.30